Totò, maschera di un grande uomo, segnato da un laido passato e da una brillante carriera.
“Signori si nasce”; e lui lo era nato. Non perché fosse figlio del noto Giuseppe De Curtis, e neanche perché fosse stato adottato dal marchese Francesco Focas, ma per la sua incredibile nobiltà d’animo. La sua infanzia non fu delle migliori: nacque nel rione Sanità da Anna Clemente e Giuseppe De Curtis, che non lo riconobbe per tenere segreto il loro legame. Un’infanzia solitaria e malinconica, segnata da un incidente che lo portò ad una deformazione del naso e del mento, caratteristiche della sua “maschera”. Nel 1913, iniziò la sua carriera teatrale e, nella prima guerra mondiale, si arruolò nel Regio Esercito. Per un malore (?) non partì mai. Ma conservò sempre il "bagaglio della vita militare" e, in particolare, il ricordo degli abusi dei caporali.
Siamo uomini o caporali?
Ero poco più che un ragazzo, quando mi decisi ad avanzare la domanda di volontariato al Distretto militare di Napoli. Mi assegnarono al 22' reggimento di stanza a Pisa.
Poiché avevo imparato che, tra gli esercizi militari, il meno penoso e il più semplice era quello di marcare visita, divenni, modestamente, uno specialista in materia.
I miei superiori non ritennero di valutare con il mio stesso metro le continue visite all'infermeria e, appena si presentò l'occasione, mi trasferirono al CLXXXII battaglione di fanteria destinato in Francia, presso un reparto di marocchini.
Durante il viaggio di trasferimento, e precisamente alla stazione di Alessandria, accusai un tale repertorio di malesseri da dover essere ricoverato d'urgenza all'ospedale militare del luogo.
Il convoglio con gli altri soldati continuò il suo viaggio ed io, appena dimesso dall'ospedale, fui inviato all'87' reggimento di fanteria.
Però le mie peregrinazioni non dovevano considerarsi ultimate. Il destino aveva deciso di farmi fare la conoscenza diretta dei più noti reggimenti italiani. Infatti, di lì a poco, si liberarono di me, lavativo per eccellenza, e fui assegnato all'88' reggimento di stanza a Livorno.
Fu in questo glorioso reggimento che ebbi come graduato il famigerato caporale, il caporale per antonomasia, il caporale a vita, uno di quelli cioè che ti fanno odiare, per un numero imprecisato di generazioni, la vita e il regolamento militari!
Egli era stato promosso caporale per assoluta mancanza di graduati disponibili, pur essendo quasi analfabeta.
Nella vita militare, il conoscere determinati mestieri (barbiere, meccanico, autista, elettrotecnico, ecc.) presto o tardi consente di uscire dall'anonimato e di godere di un certo stato di privilegio, evitando così tutte le fatiche, le corvèes e i turni di guardia. Turni di guardia e corvèes costituiscono l'ossessione dei giovani i quali attendono con ansia la libera uscita per godersi tranquillamente - e, se possibile, con una bella figliola, diciamo così, indigena - le poche ore di evasione dall'atmosfera della caserma.
A quei tempi mi piaceva la vita brillante del giovane di buona famiglia senza pensieri, sospiravo il suono della tromba che dava il via alla libera uscita e rendendomi simpatico ai superiori con le mie macchiette teatrali tentavo di conquistarmi l'esenzione dal servizi di guardia e di corvèes che coincidono, puntualmente, con il permesso serale.
Ma... c'era un "ma" che sbarrava le mie intenzioni e i miei propositi; ed era incatenato da quello strano tipo di caporale ignorante e presuntuoso il quale, animato da un'irragionevole idiosincrasia nei confronti dei "militar soldati" , abusando del suo grado, riusciva a privarci della sospirata breve libertà.
Per quel che mi concerne, posso assicurarvi che mi riservava i servizi più umili e più bassi: la pulizia delle camerate, dei gabinetti e del cortile, la pelatura delle patate avevano in me l'abituale esecutore.
E questo non era che il principio, l'inizio.
A quel caporale tutto quello che facevo io non piaceva.
Trovava da ridire su tutto, e pretendeva di farmi rifare i servizi, anche se erano stati eseguiti con il massimo impegno e, lasciatemelo pur dire, alla perfezione.
Egli urlava le sue osservazioni, spesso inconsistenti; soprattutto urlava davanti ai superiori e agli altri militari condendole con le classiche aggettivazioni in uso sotto le armi: cretino, salame, addormentato, ecc.
La vita militare non mi si era presentata sotto un aspetto eccessivamente gradevole, dato anche il mio temperamento insofferente; tuttavia, per evitare le sue continue rappresaglie, assunsi un contegno disciplinato, eseguendo senza discutere i suoi ordini e subendo con rassegnazione le sue osservazioni.
Questa mia tattica non ebbe un esito particolarmente felice.
Il caporale scambiò la mia passività per debolezza e, forte più del suo grado che dei regolamenti, raddoppiò ingiustamente la dose, rendendomi veramente asfissiante la vita in comune. Un'ira sorda, un rancore covato sotto la cenere della supina obbedienza; alfine, un odio accanito e morboso mi prese nei confronti di quell'uomo così sicuro nel carro armato dei suoi galloni.
Durante le punizioni che mi toccava scontare, rimuginavo in me un rancore senza fine nei confronti dei "caporali", verso coloro cioè che, muniti di un'autorità immeritata e forti di una disciplina che impone ai sottoposti l'obbedienza senza discussione, esercitano tali loro meschini poteri con un atteggiamento da piccoli Ezzelini da Romano.
Contrapponevo, ad essi, gli "uomini", le persone, cioè, che sanno adoperare la loro autorità senza abusare dei poteri loro commessi.
Per me, dare del "caporale" a qualcuno - in quel periodo - equivaleva a classificarlo nella peggiore categoria che si possa immaginare.
In caserma mi capitò spesso di dire: "Guardiamoci in faccia... Siamo uomini o caporali?".
Rientrai nella vita civile con il bagaglio della mia esperienza militare.
(da Antonio De Curtis, Siamo uomini o caporali?, autobiografia 1952)